Prof. Augusto Enrico Semprini
L’importanza dei maestri
Nel corso del mio lungo processo di formazione clinico scientifica ho avuto la fortuna di incontrare dei maestri competenti, illuminati, qualche volta visionari, a cui devo la mia attuale competenza e capacità.
Ho iniziato la mia formazione frequentando, al posto delle lezioni universitarie (perché a quel tempo si poteva), il reparto di medicina interna dell’Ospedale Niguarda di Milano, in un’epoca in cui non vi erano ecografie, TAC, risonanze magnetiche ma solo una radiologia ancora piuttosto rudimentale, in cui il medico doveva sviluppare esperienza e capacità diagnostica clinica per poter affrontare la complessità dei casi clinici di cui si prendeva cura.
Il reparto era diretto dal Prof. Oreste Mantero, medico internista e cardiologo di cui ricordo ogni singolo gesto e manovra diagnostica, le discussioni che lui dirigeva nel collegio dei curanti e la forza che deve animare il ragionamento clinico e il rispetto dei pazienti.
Lungimirante, nel suo centro diventò operativo un settore di studio sul colesterolo, animato da un farmacologo di grandissima levatura internazionale, il Prof. Rodolfo Paoletti e da un suo giovane allievo, il Prof. Cesare Sirtori.
Da Milano al Maryland
Ho così potuto imparare la struttura del ragionamento clinico e fu in tale occasione che incontrai, ad una presentazione medica, il Prof. Donald Fredrickson, direttore del National Institutes of Health di Bethesda-Maryland. Fredrickson tenne una conferenza entusiasmante in cui si percepiva la straordinaria forza intellettiva e di mezzi di ricerca di cui poteva disporre.
Alla fine della relazione gli chiesi, in maniera direi quasi sfrontata per uno studente al quarto anno di medicina, se avessi potuto raggiungerlo per lavorare con lui. Mi rispose cortesemente di scrivergli, cosa che feci il pomeriggio stesso e il mese dopo ero su un aereo per gli Stati Uniti e ho frequentato il suo laboratorio per più mesi comprendendo a fondo lo sforzo gigantesco che quest’uomo stava conducendo per interpretare il ruolo delle diverse classi di lipoproteine nel danno vascolare.
Da allora il laboratorio, le centrifughe, le provette sono state una realtà con cui ho avuto confidenza e che mi hanno aiutato a sviluppare i miei progetti di ricerca.
Fredrickson era sposato con una donna della nobiltà olandese e questa famiglia mi prese in simpatia fino a quasi adottarmi per tutto il periodo passato a Bethesda. Non so se per la curiosità che mi animava o solo stupiti per il mio giovanile entusiasmo e sprovvedutezza.
Con entrambi è rimasto un rapporto di amicizia e cordialità che è durato per oltre 30 anni.
Milano, Policlinico e Mangiagalli
Tornato in Italia e purtroppo scomparso il Prof. Mantero mi spostai nel reparto di medicina interna del Policlinico di Milano, diretto dal Prof. Nicola Dioguardi, epatologo di fama internazionale, e in quel reparto, come è giusto che faccia un ragazzo di bottega, ho compilato cartelle, misurato la pressione arteriosa, controllato la raccolta delle urine, e incontrato medici freschi di laurea come Luigi Bierti, Maurizio Pietrogrande, Marco Cambielli, molto più esperti di me, ma ancora in formazione, con cui ho condiviso le ansie, le soddisfazioni, le difficoltà che la medicina interna pone al medico.
Durante questi anni ho anche realizzato le mie difficoltà personali ad un lavoro di equipe. Il mio carattere molto severo e molto autocratico richiedeva una specialità in cui potessi muovermi in modo quasi autonomo. E dopo anni alternati in medicina di urgenza, chirurgia di urgenza, anestesiologia, la mia scelta cadde sull’Ostetricia e Ginecologia perché unisce alla competenza clinica quella chirurgica, e perché soprattutto nell’assistenza alla gestante il ginecologo deve sapere operare in totale autonomia tutte le scelte diagnostiche e terapeutiche necessarie.
Chiesi quindi in un colloquio con il direttore della Clinica Mangiagalli di Milano, Prof. Giovanbattista Candiani, se potevo spostarmi da medicina interna al suo istituto e fui affidato al suo allievo più caro, il Prof. Giorgio Pardi.
I maestri milanesi
L’ostetricia e la ginecologia in quegli anni erano ancora legate prevalentemente alla competenza clinica e chirurgica perché anche il semplice ecografo, ormai presente in qualsiasi studio medico, era uno strumento di là da venire. E quindi la capacità diagnostica, la manualità, l’intuito, l’esperienza erano gli unici strumenti su cui il medico poteva contare per svolgere nel modo migliore il suo compito.
La mia tesi di laurea fu sulla tiroide in gravidanza, per il ruolo molto importante che quest’organo svolge nella salute della gestante e del nascituro.
Subito dopo la laurea, su richiesta del Prof. Candiani, scrissi il mio primo libro sul fegato in gravidanza sfruttando tutti gli insegnamenti che avevo acquisito negli anni di reparto dal Prof. Dioguardi.
Purtroppo tutti questi grandi medici ormai non ci sono più, ma non è scomparsa in me la memoria dei loro insegnamenti, il rigore del loro comportamento clinico, la capacità tecnica e umana che queste grandi personalità sapevano esprimere e il fascino che sapevano esercitare su un giovane medico che ambiva acquisirle e farle proprie. Il maestro a cui devo maggior riconoscenza per la pazienza che ha dovuto esercitare per tollerare la mia esuberanza positiva, ma talvolta anche molesta, è sicuramente il Prof. Giorgio Pardi, con cui ho assistito i primi parti, eseguito i primi interventi chirurgici, scritto i primi lavori scientifici, e che ho guardato, studiato, e ammirato per tantissimi anni.
Il secondo colpo di fulmine con gli States
Al secondo anno di specialità il Prof. Candiani e il Prof. Pardi decisero di offrirmi la possibilità di una fellowship negli Stati Uniti e partì per l’università del Michigan per iniziare le mie ricerche sul rapporto immunitario tra la mamma e il feto. Era il mio secondo incontro, diciamo colpo di fulmine, con la medicina statunitense e con un mondo organizzato, preciso, ricco di risorse, come quel Paese si può permettere.
Il Direttore dell’Istituto si chiamava Alan Beer e ricordo, come fosse oggi, il primo incontro con una persona di cui non ho mai neanche visto una fotografia, dove nell’istante successivo le formalità dell’incontro scientifico nacque un’amicizia ed un affetto profondissimo e fu questa la mia seconda adozione statunitense.
I medici statunitensi vivono nei loro pigiami chirurgici verdi o azzurri che siano, e il Michigan è una regione molto fredda. E quando Alan Beer mi chiese se l’alloggio che l’università mi aveva procurato era in ordine e funzionante, dovetti confessare che il riscaldamento non era attivo da giorni e le temperature sotto zero sono comuni per molti mesi dell’anno. Si alzò dalla scrivania, prese il suo parka, ci infilammo in macchina, riparammo la luce pilota dell’impianto di riscaldamento e tornammo in università.
Che uno dei più famosi medici statunitensi faccia questo per un neolaureato che ha visto per cinque minuti rende pienamente l’idea di quanto l’università statunitense svolga a pieno il compito di formazione, accudimento e incoraggiamento di chi vuole perseguire una carriera accademica.
Irrompe sulla scena l’HIV
Durante quegli anni ho viaggiato tutti gli Stati Uniti con Beer, ero di fatto un figlio aggiunto alla sua famiglia già numerosa, e sedersi con lui a scrivere un lavoro scientifico, vedere l’umanità con cui affrontava i casi clinici, combattere delle battaglie scientifiche per far avanzare il settore di conoscenza, sono stati un monito su quanta dedizione la nostra professione richiede e sono un lascito che è ancora molto presente dentro di me.
Completata questa fellowship sono rientrato in Italia, e ho dovuto combattere le mie battaglie per poter avere gli strumenti minimi necessari in laboratorio per proseguire nelle mie ricerche.
Sono state battaglie severe, anche cruente, per chi venendo da una realtà statunitense doveva tornare a scontrarsi con i limiti finanziari e alcune piccolezze che purtroppo caratterizzano il mondo accademico italiano.
Nel 1981 fu diagnosticato il primo caso di infezione da HIV e l’intero mondo tremò all’idea di una nuova peste che avrebbe decimato l’umanità, con un virus difficile da identificare, e che richiese quasi dieci anni di lavoro perché Robert Gallo e Luc Montagnier giungessero alla definizione dell’agente responsabile della malattia da immunodeficienza.
Trasmettere la vita e non la morte
Un giorno, mentre riflettevo tranquillo sulla spiaggia di Mykonos, isola molto frequentata da omosessuali maschi, mi accorsi che sulle stesse spiagge alcuni personaggi che avevo incrociato tante volte erano scomparsi, cacciati da questa infezione virale verso cui non esisteva alcun tipo di trattamento.
Queste persone si erano contagiate sessualmente senza alcuna colpa, se non quella di un contatto sessuale che fa parte dei normali comportamenti umani fra persone che si attraggono. Queste considerazioni, per uno specialista, come ormai ero diventato, in medicina riproduttiva, mi portarono a considerare un’idea di ricerca che al tempo appariva come pura follia: eliminare il virus dal seme dei soggetti infetti per permettere di avere gravidanze senza rischi di contagio per la donna e quindi per il bambino.
Pertanto iniziai le mie prime ricerche per separare gli spermatozoi dall’eiaculato ricco di virus e ottenere un piccolo concentrato di spermatozoi sani capaci di trasmettere la vita e non la morte.
In questa ricerca al limite del funambolico per gli strumenti che disponevo, una centrifuga e qualche provetta, ebbi l’appoggio, la saggia lungimiranza e la forza del ragionamento clinico scientifico del mio maestro Giorgio Pardi che appoggiò questa ricerca e pubblicò con me, nel 1992, il risultato dei primi dieci bambini sani nati da papà sieropositivi, senza che alcuna donna si infettasse.
Gli onori del mondo scientifico
Le riviste scientifiche si riempirono di critiche, io entrai in ospedale per giorni seguito da fotografi e troupe televisive, difesi con forza la validità della procedura di lavaggio seminale che avevo messo a punto e l’Ospedale San Paolo, dove lavoravo, fu l’unico ospedale italiano nella storia della medicina ad avere il 15% di pazienti stranieri che potevano trovare solo lì questo tipo di cure.
L’assistenza era erogata a titolo completamente gratuito ma, ad esempio, un nobile inglese, grato per aver assistito il figlio e avergli permesso di avere un nipote, lasciò un assegno da centomila sterline che insieme al Prof. Pardi consegnai nelle mani del Magnifico rettore dell’università.
Dal 1992 al 2000 ho viaggiato freneticamente in tutto il mondo a presentare il risultato delle mie ricerche, il metodo è oggi usato ovunque e non vi è mai stato un singolo caso di infezione.
Gli stessi statunitensi del Center for Disease Control, che dopo la prima pubblicazione mi avevano aspramente criticato suggerendo che quello che io offrivo era più una speranza che una certezza scientifica, finanziarono un ampio progetto di ricerca, dimostrando senza alcun dubbio che il metodo era valido, sicuro, applicabile in tutto il mondo, anche con limitate risorse cliniche e di laboratorio.
Un successo così rilevante mi ha portato gli onori del mondo scientifico e un comprensibile antagonismo nell’ambito accademico, tanto da dover lasciare il mio laboratorio negli anni 2000 e proseguire le mie attività di ricerca e di studio a Londra, presso l’University College of London e come Consultant del Chelsea and Westminster Hospital.
Lo Studio Semprini, un distillato di esperienze
Rientrato definitivamente in Italia ho poi continuato la mia attività di specialista in medicina riproduttiva, di ostetrico e di chirurgo pelvico, insieme ai giovani medici che avevo cresciuto all’Ospedale San Paolo, allo staff di laboratorio e a quello amministrativo che mi seguirono nel fondare la realtà clinico-scientifica che è lo Studio Semprini, che tuttora dirigo e dove questi allievi che incontrai studenti, aiutai a scrivere le loro tesi di laurea e di specialità, sono ancora con me per offrire alle pazienti, soprattutto alle coppie più sfortunate e con le situazioni più complesse, le migliori cure possibili.
Tutto questo non avrei mai potuto farlo senza la presenza clinica, scientifica, emotiva, spesso affettiva, dei personaggi che prima ho menzionato, a cui va il mio pensiero e la mia gratitudine e che spero di impersonare nel modo più sincero possibile.
Prof. Augusto Enrico Semprini
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